Il Garante della Privacy si esprime sul cd. “Passaporto Vaccinale”
dal Massimario della Corte di Cassazione – relazione tematica 56 del luglio 2020
La Cassazione si esprime in relazione al tema della rinegoziazione obbligatoria dei rapporti contrattuali interessati dalla sopravvenienza da virus pandemico.
Vengono delineate le basi giuridiche del dovere di rinegoziazione in capo ai contraenti. La Cassazione si spinge ad affrontare il problema di stabilire l’oggetto di tale dovere e specifica che esso consiste nella cooperazione del contraente avvantaggiato dalla sopravvenienza che deve impegnarsi conducendo trattative in modo costruttivo per consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell’adeguamento del contratto.
Viene affrontato anche il ruolo del Giudice a fronte della rinegoziazione non effettuata o fallita, il quale si sostituirà alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso e determinando la modifica dell’originario contratto.
Per approfondire ecco il link : http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_Tematica_Civile_056-2020.pdf
dal Massimario della Corte di Cassazione
Rassegna protezione internazionale – Primo semestre 2020
Social Network in Tribunale
I social network fanno parte della nostra vita e sono diventati uno strumento quotidiano di interazione. Essi aprono delle finestre sulle nostre vite: le foto documentano dei fatti, le parole veicolano le nostre idee.
Vi siete mai chiesti se tutto il materiale che “passa” sui social, compresa la messaggistica e chat varie, o più semplicemente le e-mail o SMS, possa essere utilizzato nei Tribunali e con che valore?
E’ un argomento per molti aspetti piuttosto tecnico, che impegna notevoli discussioni di diritto e che comunque ci porta proprio nel cuore del processo, l’istruttoria, il vero terreno di battaglia degli avvocati che lì devono ricostruire quella rappresentazione processuale della realtà che porterà poi il Giudice a dare ragione all’una o altra parte.
Due norme fondamentali regolano la questione. La prima sta nel codice civile ed è la norma cardine del sistema (art . 2712 cc). Essa detta la particolare valenza probatoria delle riproduzioni informatiche senza darne un elenco e senza definirle in sè: è una norma aperta che conferisce sostanzialmente a tutti i sistemi di riproduzione già diffusi ma anche a tutti quelli che la tecnologia sarà in grado di elaborare “carattere di piena prova dei fatti e delle cose rappresentate”. Chi “subisce” detta produzione ha l’onere di disconoscerne la conformità ai fatti o alle cose medesime. Ovvio che detto disconoscimento, per essere efficace, deve contenere gli elementi concreti che attestano la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta.
E’ già evidente la rilevanza di queste prove.
Si noti poi che il disconoscimento anche se effettuato, pur privando la riproduzione informatica dell’efficacia di “piena prova” (piena prova è una prova sufficiente a fondare l’accertamento di un fatto), non la cancella certo dal processo ed essa rimane sottoposta al prudente apprezzamento del giudice (in altri termini il Giudice deve valutarla nel complesso di tutti le altri mezzi di prova portati nel processo ed effettuare un bilanciamento per raggiungere il suo convincimento).
Vi è anche un’altra norma di riferimento, più recente, l’art. 20 comma 1 bis del Codice dell’Amministrazione Digitale del 2005, secondo cui i documenti informativi non sottoscritti con firma digitale “sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità”. La norma sembrerebbe andare nella opposta direzione di assoggettare tutti i casi di riproduzioni informatiche, diverse dal documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, al prudente apprezzamento del Giudice.
I Tribunali tuttavia rimangono fedeli al tradizionale insegnamento in virtù del quale l’art. 2712 cc è norma di chiusura suscettibile di essere applicata ai documenti dichiarativi intesi in senso lato e quindi, oltre che alle riproduzioni, anche agli scritti in senso lato.
La Corte di Cassazione ha recentemente confermato tale orientamento in materia di spese straordinarie per i figli (Cass. 19155/2019). Si discuteva in un caso in cui la ex moglie chiedeva il rimborso all’ex marito della sua quota delle rette del nido del figlio ed aveva prodotto degli SMS in cui questi di era detto d’accordo con l’iscrizione. La Corte ha confermato che lo “short message service” contiene rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ed è riconducibile nell’ambito dell’art. 2712 cc e forma piena prova dei fatti ivi rappresentati.
Sempre in tema di famiglia ed in particolare nelle cause di separazione o divorzio, si pensi alla rilevanza di post su social network come prova del reddito e del tenore di vita dei due coniugi ai fini della quantificazione di un eventuale assegno di mantenimento (si pensi a foto di viaggi, cene etc.) oppure come prova della domanda di addebito della separazione (si pensi a post denigratori, a fotografie con contenuti volgari).
Anche nel campo dei rapporti di lavoro diverse sentenze si sono occupate di definire la rilevanza di comportamenti privati documentati tramite i social network. Oggi comportamenti privati che in passato erano confinati nella sola sfera extra-lavorativa e generalmente irrilevanti possono avere rilevanza ed assurgere a fattori di valutazione degli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro. La casistica comincia ad ampliarsi: recentemente il Tribunale di Firenze con la sentenza 16.10.2019 si è occupato di un caso in cui il datore di lavoro aveva contestato al dipendente (poi licenziato) di aver inviato messaggi vocali tramite una chat denominata “amici di lavoro” denigratori nei confronti del superiore gerarchico non presente nel gruppo Whatsapp .
Il Giudice in questo caso ha concluso dichiarando l’illegittimità del licenziamento sulla base del fatto che i messaggi fossero diretti ad un gruppo chiuso, tale da escludere qualunque intento di diffusione denigratoria.
Diversamente però si è ritenuto che la pubblicazione da parte di un lavoratore sulla propria pagina Facebook di un messaggio a contenuto denigratorio e diffamatorio dell’azienda costituisca una condotta che legittima il licenziamento per giusta causa in quanto il messaggio così pubblicato in ragione dello strumento utilizzato può raggiungere una platea di soggetti indeterminati (attraverso infinite condivisioni).
Dunque la valenza probatoria e le oscillazioni giurisprudenziali in relazione all’utilizzo dei social network ne suggeriscono un attento utilizzo.
A ᴄᴏsᴀ sᴇʀᴠᴇ ʟᴀ ᴅᴏᴍᴀɴᴅᴀ ᴅɪ ᴀᴅᴅᴇʙɪᴛᴏ ɴᴇʟʟᴀ sᴇᴘᴀʀᴀᴢɪᴏɴᴇ?
Questa settimana mi ha particolarmente incuriosito una pronuncia del Tribunale di Ravenna pubblicata il 23.4.2020 emessa in una causa di separazione iniziata nel 2016 .
Con questa pronuncia il Tribunale ha dichiarato l’addebito della separazione ad entrambi i coniugi in quanto, secondo la valutazione del Giudice, l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza era addebitabile in via autonoma a condotte contrarie ai doveri derivanti dal matrimonio poste in essere da ciascuno dei coniugi.
L’istruttoria, piuttosto complessa a leggere il provvedimento, aveva provato che uno dei due coniugi aveva la mania del controllo (che aveva messo in atto con pratiche non proprio consone). L’altro coniuge, invece (che non era riuscito a dare la prova che la vita matrimoniale, dopo tali comportamenti dell’altro fosse divenuta solamente formale) aveva intrapreso relazioni extra coniugali con condotte ripetute e lesive della dignità dell’altro.
Il Tribunale ha dunque ravvisato nei comportamenti dei coniugi concausa alla fine del matrimonio (leggi sentenza).
La causa, in cui comunque si discuteva anche dell’affidamento dei figli, è durata comunque almeno 4 anni.
Ora l’art. 151 del codice civile prevede che “il giudice pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.
Si tratta precisamente ai sensi dell’art. 143 cc dei doveri di: assistenza morale e materiale, fedeltà, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione.
Cosa occorre dimostrare in giudizio:
Il comportamento contrario ai doveri coniugali.
Che detto comportamento sia stato la causa della intollerabilità della prosecuzione della convivenza matrimoniale.
Dunque, la richiesta di addebito della separazione non può trovare accoglimento nell’ipotesi in cui il rapporto coniugale risulti già compromesso per qualche altro motivo.
Risulta piuttosto evidente che questo tipo di accertamento comporta che tribunali, avvocati, testimoni si interessino necessariamente a ciò che è avvenuto tra le mura domestiche.
Con allungamento del giudizio e dei costi.
Pertanto prima di decidere in relazione alla proposizione di tale tipo di domanda, che espone anche al rischio di condanna alle spese in caso di rigetto, sarebbe opportuno domandarsi dal punto di vista patrimoniale quali sarebbero nel caso concreto i vantaggi del suo accoglimento.
Le conseguenze della pronuncia dell’addebito.
Nella separazione
L’art. 156 cc prevede che il coniuge al quale sia stata addebitata la separazione non ha diritto ad alcun assegno di mantenimento ma solo il diritto agli alimenti qualora ve ne siano i presupposti.
Inoltre, il coniuge al quale sia stata addebitata la separazione non ha diritti successori nei confronti dell’altro coniuge ma può avere diritto ad un assegno vitalizio a carico dell’eredità, se al momento della apertura della successione godeva degli alimenti legali a carico dell’altro coniuge.
Va tenuta in considerazione la circostanza che oggi i tempi della separazione sono ben più brevi di un tempo, laddove oggi è possibile fare domanda di divorzio dopo un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale in caso di separazione contenziosa.
Quali conseguenze sul riconoscimento dell’assegno divorzile
In estrema sintesi, si può dire che l’assegno di separazione e quello di divorzio sono autonomi e si fondano su diversi presupposti. Dunque, la dichiarazione di addebito della separazione non esclude di per sè il riconoscimento dell’assegno divorzile, ma eventualmente può incidere insieme agli altri parametri di legge nella sua determinazione (laddove uno dei parametri per la quantificazione dell’assegno è proprio quello delle ragioni della decisione, inteso come rilevanza delle condotte dell’uno o dell’altro nella dissoluzione del matrimonio).
La mancata richiesta dell’addebito della separazione non esclude la possibilità di procedere in presenza di gravi violazioni dei doveri coniugali con azione di risarcimento del danno endofamigliare
La famiglia non è più considerata come una istituzione portatrice di interessi prevalenti rispetto a quelli dei singoli e sono dunque azionabili forme di tutela risarcitoria nei confronti della condotta illecita di uno dei coniugi il cui status non può certo comportarne l’irrilevanza.
La responsabilità sorge quando la violazione dei doveri coniugali si contraddistingue (tristemente) per la sua intrinseca gravità, come violazione di diritti fondamentali inerenti alla persona.
Il rimedio risarcitorio e l’addebito della separazione sono strumenti tra loro autonomi e non sono tra loro in rapporto di pregiudizialità: questo significa che il rigetto o la scelta di non azionare uno dei due rimedi non ha riflessi sull’altro.
Cosa è necessario provare in giudizio:
Naturalmente il fatto lesivo, l’esistenza di un danno e il rapporto causale tra fatto lesivo e danno.
Pᴇʀᴄʜᴇ́ ʟ’ᴀssᴇɢɴᴏ ᴅɪ ᴍᴀɴᴛᴇɴɪᴍᴇɴᴛᴏ ᴅᴇʟʟ’ᴇx ᴄᴏɴɪᴜɢᴇ ᴠᴀ ᴘᴀɢᴀᴛᴏ sᴇᴍᴘʀᴇ ᴄᴏɴ ᴘᴜɴᴛᴜᴀʟɪᴛᴀ̀
L’abitudine di pagare in ritardo l’assegno fissato dal Giudice per il mantenimento del coniuge è frequente e costituisce una forma di violenza psicologica non trascurabile soprattutto tenuto conto che le finalità dell’assegno, salvo rari casi, sono quelle di far fronte ad esigenze di vita primarie.
E’ noto che se il coniuge obbligato non provvede al pagamento dell’assegno di mantenimento dell’altro coniuge la Legge prevede la possibilità di richiedere che detto l’obbligo sia posto a carico del terzo debitore (si tratta del datore di lavoro o dell’Ente pensionistico).
La legge parla esattamente di “inadempienza”.
Ma cosa dire di un breve ritardo, ovviamente reiterato? E’ possibile considerarlo inadempimento rilevante per chiedere al Giudice di porre l’obbligo di pagamento a carico del terzo?
Secondo la giurisprudenza (vedi da ultimo Cass. 5604/2020) tale valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del Giudice il quale dovrà valutare le circostanze del caso concreto e decidere se il comportamento dell’obbligato susciti dubbi in relazione alla esattezza ed alla regolarità del futuro adempimento.
Esaminiamo un interessante caso concreto deciso dal Tribunale di Terni con la sentenza del 18.3.2020.
Una signora separata lamentava la corresponsione del mantenimento da parte del marito con alcuni giorni di ritardo: egli avrebbe dovuto pagare esattamente il 20 di ogni mese ed invece aveva corrisposto il mantenimento di gennaio 2019 il 31, quello di febbraio il 4 marzo, quello di aprile il 3.maggio, quello di maggio il 4 giugno, quello di giugno il 2 luglio, quello di luglio il 5 agosto, quello di agosto il 3 settembre. Inoltre, da settembre a dicembre aveva omesso il pagamento sanando però il debito subito dopo la notifica del precetto.
Secondo la valutazione prudenziale di cui sopra si è detto, valutazione che deve tenere conto di tutte le circostanza del caso concreto, il Tribunale si è espresso in questi termini: “il non puntuale adempimento dell’obbligo di mantenimento anche se con pochi giorni di ritardo legittima ove idoneo a determinare fondati dubbi sulla tempestività dei futuri pagamenti, l’emanazione dell’ordine ai terzi in quanto la funzione che adempie l’assegno di mantenimento viene ad essere frustrata anche da semplici ritardi”.
Nel caso esaminato dal Tribunale l’assegno aveva un ammontare di € 300,00. L’ammontare non elevato del mantenimento e la sua vocazione alimentare è stato ulteriore indice di valutazione dell’apprezzamento dell’incertezza derivante dal ritardo.
Dovere o Possibilità del datore di lavoro di ricorrere allo smart working ai tempi della pandemia? E’ legittima la prospettazione del godimento di ferie non ancora maturate in alternativa all’accesso al lavoro agile?
Al tempo della pandemia i Tribunali di merito iniziano già a pronuciarsi sul diritto dei lavoratori a svolgere la prestazione lavorativa in “smart working” disciplinata in via generale dalla Legge 22 maggio 2017 n. 81 ed oggetto di numerose previsioni nella recente normativa d’urgenza atta a prevenire la diffusione del Covid-19.
IL CASO
Il Tribunale di Grosseto con la pronuncia del 22.4.2020 ha deciso il seguente caso.
Un impiegato, addetto al servizio di assistenza legale e contenzioso, lamentava di non essere stato adibito al lavoro agile e che il datore di lavoro gli proponeva in alternativa la sospensione non retribuita ovvero la fruizione di ferie “anticipate” (ossia da computarsi su un monte ferie non ancora maturato).
L’azienda (società per azioni che opera nel settore dell’energia) non assumeva nel giudizio l’impossibilità di ricorrere al lavoro agile che, anzi, aveva attuato nei confronti dei dipendenti del medesimo reparto.
Argomentava inoltre che le previsioni normative emergenziali si fossero limitate a mere raccomandazioni o a fare riferimento alla semplice possibilità del ricorso al lavoro agile escludendo un dovere datoriale in tal senso.
Adduceva peraltro motivazioni di carattere organizzativo effettivamente del tutto poco plausibili riguardo alla impossibilità di soddisfare la richiesta del dipendente (costi per configurazione PC; che il ricorrente si trovava in malattia quando l’azienda aveva attivato la modalità “smart” per gli altri dipendenti e che non sarebbe stato possibile modificare l’organigramma del personale cui era consentito di lavorare da remoto).
LA SOLUZIONE DEL TRIBUNALE
Il ricorso al lavoro agile non è oggetto – anche a seguito della normativa “anti-covid”- di una previsione cogente.
Pertanto la valutazione di ricorrervi o meno NON appartiene alla sfera del Giudice: tale valutazione è propria dell’esercizio del potere di iniziativa imprenditoriale garantito costituzionalmente.
Tuttavia, laddove l’imprenditore vi fa ricorso, non deve agire in maniera irragionevolmente o immotivatamente discriminatoria nei confronti di questo o quel lavoratore, tanto più laddove vi siano motivi di priorità legati a motivi di salute (nel caso esaminato dal Tribunale il lavoratore, oltre che unico del reparto escluso dal lavoro agile, avrebbe invece dovuto avere accesso prioritario in quanto affetto da una patologia polmonare).
Quanto alla misura del godimento delle ferie, il Tribunale ha chiarito che essa è misura subordinata laddove il datore di lavoro abbia fatto ricorso al lavoro agile.
Inoltre il ricorso a ferie non ancora maturate si profila contrario al principio generale per cui le ferie (maturate) servono a compensare il lavoro svolto con periodi di riposo consentendo il recupero delle energie e maturano in proporzione alla durata della prestazione lavorativa.
Misure restrittive da emergenza sanitaria: è possibile rinegoziare il canone di locazione delle attività commerciali?
L’impatto delle misure restrittive sulle attività commerciali, artigianali ed industriali si farà sentire, naturalmente, anche alla riapertura quando cioè i “conduttori” potranno tornare ad usufruire pienamente dei locali condotti in locazione: si pensi solo alle restrizioni derivanti dalle nuove misure di sicurezza nelle modalità di fruizione di bar, ristoranti o parrucchieri e comunque di tutti locali “al pubblico” .
Le misure specifiche previste dal Legislatore a tutela di coloro che pagano canoni di locazione (come il credito di imposta pari al 60% del canone riconosciuto per il mese di marzo immobili in categoria C1 art. 65 decreto Cura Italia ) sembrano, a dire il vero, parziali.
L’esigenza degli esercenti è quella di mantenere il contratto di locazione, ma certamente per preservare la continuità delle attività, le condizioni contrattuali dovrebbero essere riviste in attesa di riprendere dei ritmi “quasi” normali.
La strada più semplice per ottenere una revisione delle condizioni contrattuali è ovviamente quella dell’accordo tra le parti, il che non è sempre così scontato considerato che gli interessi del conduttore e del locatore appaiono a prima vista confliggenti (ma così, in realtà, non è).
Ora come fare ad ottenere una rinegoziazione del contratto se il contratto non prevede delle specifiche clausole che prevedono la revisione al verificarsi di determinate eventi successivi alla stipula del contratto?
E’ possibile appellarsi al principio di buona fede di cui all’art. 1375 cc che deve accompagnare le parti di un contratto anche nella fase della esecuzione.
Le prestazioni delle parti devono mantenersi tra loro anche nella fase della esecuzione in sostanziale equilibrio.
Pertanto se in un contratto di durata, come è appunto il contratto di locazione, insorgono degli eventi come quello stiamo vivendo, che modificano l’equilibrio sostanziale tra le prestazioni delle parti, appare pienamente rispondente al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto, che esse non si sottraggano ad una trattativa per ricondurre tali prestazioni ad equilibrio.
Si può pertanto affermare che esiste sicuramente un dovere del locatore di non rifiutare in modo ostruzionistico e di non sottrarsi quindi alla richiesta di negoziazione del canone da parte del conduttore. Questi da parte sua non deve presentare richieste sproporzionate.
La durata della revisione del canone potrà ragionevolmente avere una durata limitata nel tempo, in funzione dei prevedibili tempi di ripresa e di ritorno alla normalità.
COVID-19: DIRITTO AL RIMBORSO VACANZE
Il Decreto cd. “Cura Italia” (D.L. 13.3.2020. n. 18) aveva già previsto e disciplinato il diritto al rimborso dei pacchetti turistico ovvero dei titoli di viaggio nei casi in cui i soggetti acquirenti non possono usufruirne perché in qualche modo direttamente interessati dal contagio (perché ad esempio positivi, ovvero tenuti alla permanenza domiciliare con sorveglianza attiva e/o ricovero).
La Legge n. 27 del 24 aprile 2020 di conversione del Decreto Legge 18/2020 ha oggi introdotto anche specifiche disposizioni in relazione a tutti i soggiorni e viaggi da effettuarsi nel periodo 11 marzo – 30 settembre 2020 in Italia o all’estero. Esattamente il comma 11 dell’art. 88 bis prevede il diritto al rimborso per tutti quei contratti di viaggio con “effetto” in tale periodo (indipendentemente dalla data di sottoscrizione del contratto) a condizione che le prestazioni non siano rese a causa degli effetti derivanti dallo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19.
In entrambi i casi il contratto si scioglie per sopravvenuta impossibilità della prestazione e sono rimborsabili tutti gli acconti versati.
L’operatore turistico che ha incassato l’acconto può emettere a sua scelta, in sostituzione del rimborso, un voucher dello stesso importo valido per un anno dall’emissione.
Le norme di cui all’art. 88 bis della L. 27/2020 vengono definite dalla stessa Legge di “applicazione necessaria”: ciò significa che esse prevalgono sulla eventuale legge straniera regolatrice del contratto.
Nel primo caso dunque il contraente che non può usufruire della prestazione dovrà formulare la richiesta del rimborso all’operatore turistico allegando, oltre alla copia del contratto e/o del titolo di viaggio la documentazione che attesta l’impedimento da COVID-19. La Legge prevede che l’operatore deve provvedere a corrispondere il rimborso ovvero ad emettere il voucher non oltre sessanta giorni dalla data prevista di inizio del viaggio.
Nel secondo caso invece per effettuare la richiesta di rimborso dovremo attendere la comunicazione dell’operatore che ci comunica la cancellazione del viaggio. La Legge non definisce i termini per l’emissione del rimborso /voucher ma per analogia si dovrebbe ritenere applicabile lo stesso termine previsto nel primo caso.