I social network fanno parte della nostra vita e sono diventati uno strumento quotidiano di interazione. Essi aprono delle finestre sulle nostre vite: le foto documentano dei fatti, le parole veicolano le nostre idee.
Vi siete mai chiesti se tutto il materiale che “passa” sui social, compresa la messaggistica e chat varie, o più semplicemente le e-mail o SMS, possa essere utilizzato nei Tribunali e con che valore?
E’ un argomento per molti aspetti piuttosto tecnico, che impegna notevoli discussioni di diritto e che comunque ci porta proprio nel cuore del processo, l’istruttoria, il vero terreno di battaglia degli avvocati che lì devono ricostruire quella rappresentazione processuale della realtà che porterà poi il Giudice a dare ragione all’una o altra parte.
Due norme fondamentali regolano la questione. La prima sta nel codice civile ed è la norma cardine del sistema (art . 2712 cc). Essa detta la particolare valenza probatoria delle riproduzioni informatiche senza darne un elenco e senza definirle in sè: è una norma aperta che conferisce sostanzialmente a tutti i sistemi di riproduzione già diffusi ma anche a tutti quelli che la tecnologia sarà in grado di elaborare “carattere di piena prova dei fatti e delle cose rappresentate”. Chi “subisce” detta produzione ha l’onere di disconoscerne la conformità ai fatti o alle cose medesime. Ovvio che detto disconoscimento, per essere efficace, deve contenere gli elementi concreti che attestano la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta.
E’ già evidente la rilevanza di queste prove.
Si noti poi che il disconoscimento anche se effettuato, pur privando la riproduzione informatica dell’efficacia di “piena prova” (piena prova è una prova sufficiente a fondare l’accertamento di un fatto), non la cancella certo dal processo ed essa rimane sottoposta al prudente apprezzamento del giudice (in altri termini il Giudice deve valutarla nel complesso di tutti le altri mezzi di prova portati nel processo ed effettuare un bilanciamento per raggiungere il suo convincimento).
Vi è anche un’altra norma di riferimento, più recente, l’art. 20 comma 1 bis del Codice dell’Amministrazione Digitale del 2005, secondo cui i documenti informativi non sottoscritti con firma digitale “sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità”. La norma sembrerebbe andare nella opposta direzione di assoggettare tutti i casi di riproduzioni informatiche, diverse dal documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, al prudente apprezzamento del Giudice.
I Tribunali tuttavia rimangono fedeli al tradizionale insegnamento in virtù del quale l’art. 2712 cc è norma di chiusura suscettibile di essere applicata ai documenti dichiarativi intesi in senso lato e quindi, oltre che alle riproduzioni, anche agli scritti in senso lato.
La Corte di Cassazione ha recentemente confermato tale orientamento in materia di spese straordinarie per i figli (Cass. 19155/2019). Si discuteva in un caso in cui la ex moglie chiedeva il rimborso all’ex marito della sua quota delle rette del nido del figlio ed aveva prodotto degli SMS in cui questi di era detto d’accordo con l’iscrizione. La Corte ha confermato che lo “short message service” contiene rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ed è riconducibile nell’ambito dell’art. 2712 cc e forma piena prova dei fatti ivi rappresentati.
Sempre in tema di famiglia ed in particolare nelle cause di separazione o divorzio, si pensi alla rilevanza di post su social network come prova del reddito e del tenore di vita dei due coniugi ai fini della quantificazione di un eventuale assegno di mantenimento (si pensi a foto di viaggi, cene etc.) oppure come prova della domanda di addebito della separazione (si pensi a post denigratori, a fotografie con contenuti volgari).
Anche nel campo dei rapporti di lavoro diverse sentenze si sono occupate di definire la rilevanza di comportamenti privati documentati tramite i social network. Oggi comportamenti privati che in passato erano confinati nella sola sfera extra-lavorativa e generalmente irrilevanti possono avere rilevanza ed assurgere a fattori di valutazione degli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro. La casistica comincia ad ampliarsi: recentemente il Tribunale di Firenze con la sentenza 16.10.2019 si è occupato di un caso in cui il datore di lavoro aveva contestato al dipendente (poi licenziato) di aver inviato messaggi vocali tramite una chat denominata “amici di lavoro” denigratori nei confronti del superiore gerarchico non presente nel gruppo Whatsapp .
Il Giudice in questo caso ha concluso dichiarando l’illegittimità del licenziamento sulla base del fatto che i messaggi fossero diretti ad un gruppo chiuso, tale da escludere qualunque intento di diffusione denigratoria.
Diversamente però si è ritenuto che la pubblicazione da parte di un lavoratore sulla propria pagina Facebook di un messaggio a contenuto denigratorio e diffamatorio dell’azienda costituisca una condotta che legittima il licenziamento per giusta causa in quanto il messaggio così pubblicato in ragione dello strumento utilizzato può raggiungere una platea di soggetti indeterminati (attraverso infinite condivisioni).
Dunque la valenza probatoria e le oscillazioni giurisprudenziali in relazione all’utilizzo dei social network ne suggeriscono un attento utilizzo.